mercoledì 17 dicembre 2008

Il lato B

Il mondo sottomette qualunque opera a un'alternativa; quella della riuscita o del fallimento, della vittoria o della sconfitta. Io protesto affinché venga presa in conto un'altra logica: io sono contemporaneamente e contraddittoriamente gioioso e disperato...
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso

"B" è una lettera a cui sono affezionata. L'iniziale della mia città, Bologna, il lato b dei vinili che conservo gelosamente - tutti a bassissima fedeltà - la consonante del soprannome di uno dei membri dei CT il Baro, la serie b, le bare dei morti, i baroni universitari e molte altre cose.
Ringrazio l'anonimo "Studente di B" per questa considerazione così giusta, forse fin troppo vera.
Ad Agosto però non c'era nessun vento leggero ma un lutto che mi porto ancora appresso.
Ma questa non vuol essere una scusante semmai cercherò di renderla una grande opportunità.

sabato 13 dicembre 2008

Omaggio allo Scultore


Potrete decidere delle vostre leggi ma il tribunale in cui sarete giudicati è sempre la tomba

C'è questo bisogno tutto umano di ricostruire il mondo fuori da sé. Sartre descrive il costante lavoro di creazione-distruzione nella scultura di Giacometti come un modo per avvicinarsi alla vita. Lo affascina, di quelle eteree e carnalissime figure, la presenza imminente nel mondo dei vivi. Loro, le immagini, ancora più vive perché fatte per morire.
Mi rapisce questa idea del padre che crea un figlio perfetto solo perché ne ha già pattuito il destino.
Non esiste forma che possa soddisfare questo "eterno". L'artista, solo, s'appaga e appaga di questa parziale esattezza, la mente umana non ne vede una più precisa, che è la padronanza della narrazione, compresa la fine. Non vedo differenza tra tecniche e temporalità: tutti, indistintamente, operano un tentativo di salvazione.
Gli altri, gli altri artisti farisei, non vedono al di là dello specchio ma riproducono infinite volte un'inutile immagine riflessa.
L'arte risponde per prima a questa necessità che non è capire ma salvare.

Metafora di un fraintendimento

Ci sono sempre molti luoghi condivisi tra due persone il cui destino si biforca progressivamente come le radici di un vecchio albero. Capita, a volte, che questi fenomeni di separazione non siano netti tagli di scure ma naturali inclinazioni, comprese e condivise da entrambi. In queste occasioni, quando per una coincidenza o volontà del destino, gli attori della scena precedente si reincontrano avvengono bizzarre florescenze. Fu così che mi capitò d'essere presente il giorno in cui M. e K. ricomparvero sul palcoscenico. Continuava a piovere e c'era poca luce ma si videro ugualmente: lui avvolto in una sciarpa di fumo grigio lei più precisa d'una volta. S'accolsero con sincera emozione, senza sentimentalismi, con il distacco che si conviene a chi un tempo ha conosciuto le volontà e le negligenze dell'altro. Lui ed io aspettavamo, forse un po' invecchiati, che aprisse la biglietteria del cinema ma quando M. comparve decidemmo d'andare tutti insieme a mangiare qualcosa. Non era né presto né tardi, uno strano orario visto che lui era abituato a cenare molto tardi, e trovammo facilmente posto in un piccolo ristorante che non aveva ricordi per nessuno di noi. Dopo l'antipasto stavamo già ripensando a quell'ultimo anno d'università e, mentre i tavoli intorno a noi si riempivano di sconosciuti, M. parlò del fatto: "Sai, credevo che ce l'avremmo fatta, che tu fossi veramente dalla mia parte, che il giornale e tutto il resto significassero qualcosa anche per te". K. la guardava fisso con un sorriso comprensivo e sapeva che lei non avrebbe mai veramente accettato: "Ma io ci credevo, credevo in te, del progetto, delle idee di cui parlavi, non ho mai capito molto". Lui era innamorato di lei, credeva, lui però non varebbe mai abbandonato il suo destino costruito con tanta meticolosa attenzione per seguirla. Lei era innamorata di quello che lui rappresentava e non l'avrebbe mai convinto a barattare quel fraintendimento per una vita insieme. Conservavo ancora a casa mia i tre numeri usciti di quel costoso esperimento: lui aveva dato fondo ai suoi risparmi personali per realizzarlo, lei ci aveva lavorato giorno e notte e tutte le ore in cui lui non c'era, tutte le giornate in cui lui svolgeva la sua vita ufficiale altrove. Ci fu, effettivamente, un momento in cui le aspettative, le aspirazioni e i sentimenti divennero così precisi che non soltanto io - coinquilino di K. - ma tutti, tutti, s'accorsero di quello che stava accadendo. Forse fu proprio solo M. a non accettare il ruolo che le veniva attribuito e se ne andò. Fu lei, da un punto di vista formale, a interrompere quell'esperienza. Ma era lei che soffriva maggiormente. Questa ovviamente è una verità retroattiva che ho colto dal bisogno delle sue parole di trovare una spiegazione, anche dopo tanti anni. Lui di ragioni non ne cerca. K. si sveglia tutte le mattine nello stesso letto, anche se è in una nuova città. M. dorme su di un albero anche quando è a casa sua. Lui la vede, credo, fuori dalla finestra, in lontananza. Non sa davvero se sia le ma lo intuisce. Non sa davvero se sia lei perché non è mai uscito di casa la notte per andarle incontro, per verificare se quell'ombra sia carne. L'ultima volta che ricordo d'averli visti felici, ancora ignari o volontariamente ciechi, eravamo distesi su di un prato di notte e un vecchio marionettista blu smontava il suo teatrino a due passi da noi. Non ho chiesto loro nulla di quella notte perché ho paura che uno dei due, o forse entrambi, l'abbiano dimenticata.
Quando ci siamo salutati ormai era giorno ed io sapevo che avrei portato con me l'unico ricordo sereno di quel grande fraintendimento. K. ha un lavoro di grande responsabilità oggi, è ben pagato e sua moglie ha partorito una bambina che gli somiglia come una goccia d'acqua. M. sbarca il lunario, il suo nome è rispettato negli ambienti scientifici, non si è mai sposata e non ha ancora una casa di proprietà.

venerdì 12 dicembre 2008

Where is Alan P.?

After the french party


Special thanks Giulia

After the trip

martedì 2 dicembre 2008

A bassissima definizione

Babele



Ai costruttori della Torre di Babele mancava il cemento armato. A noi manca la confusione tra le lingue che ci servirebbe per portare a termine la Torre. Non esiste soluzione per la città.


A chi mi sta chiedendo cos'abbiano a che fare questi racconti con l'architettura ricordo che il progetto di una narrazione non è dissimile da quello per un edificio.
Ho solo il privilegio rispetto a voi, cari architetti, di gestire una materia molto più duttile - la parola - ma ho la grande disgrazia di aver capito che questa, rispetto alla solida pietra o al ruvido cemento, mi tradirà sempre.
Mi rimproverate di non sporcarmi le mani in cantiere ma non vi chedete quanti treni abbia perso e quanti occhiali abbia consumato per trovare i miei personaggi.
Mi accusate di non conoscere gli strumenti del mestiere, infatti non conosco quelli del vostro mestiere, che sono linee e superfici, ma indago continuamente quelli del mio, che sono le figure e la trama.
In ultimo dichiarate che io un mestiere non ce l'ho e credo che questa sia la condizione fondamentale per chiunque voglia manipolare i sogni, le utopie e la realtà.

Buon Compleanno Tamp

lunedì 1 dicembre 2008

La règle du jeu



[®acconti inediti 2008]

Le comunicazioni degli eventi cadevano nella casella postale come rare gocce in una cisterna e l'impressione che lasciavno su di me era quella di cerchi perpetui, non riparabili. Restavano lì, gli incontri previsti, annunciati poi consumati, nell'aula tal dei tali, presso la biblioteca nel chiostro xy, nella piazza o per la via, della città così e cosà, e i biglietti del treno che mi portava in questi luoghi s'accumulavano nel portafoglio. Troppo pochi per essere gettati via con regolarità, troppi per non creare in me un sospetto d'abuso. Il mio nomadismo non lasciava altre tracce al di fuori dei cerchi perpetui formati dalle rare gocce delle mie missioni. A differenza dell'eroe che ha un pubblico numeroso e appassionato i miei movimenti, le mie avventure, come quelle della maggior parte degli utenti che mi circondava, esistevano solo nel timbro dei suddetti biglietti. Obliteravo i miei rari incontri con la vita e per il resto aspettavo, davanti a uno schermo, che qualche segretaria di dipartimento m'inviasse la mappa verbale della meta successiva.
Il suono della posta ricevuta era il terzo campanello prima dell'inizio dello spettacolo. Le luci già spente. Un brusio sommesso. Si apre il sipario.
Vorrei creare un libro fatto dei flyer di conferenze, vernici, letture, presentazioni. Gli inviti. Che negli anni dedicati alla "formazione di un sapere" hanno significato per me l'appartenenza ad una setta il cui simbolo segreto stava racchiuso nel tesserino universitario plastificato sui due lati, con l'orrenda foto segnaletica, la firma e i timbri complanari. Lei è membro ufficiale della sacra famiglia dei baroni. Per tre anni le offriremo il privilegio d'affollare le aule scrostate dei nostri antichi palazzi, la inviteremo ad ogni inutile manifestazione - tanto per fare numero - e per il resto del tempo, come si conviene ad ogni segretissima associazione a delinquere, la ignoreremo. Allo scoccare della mezzanotte del terzo anno lei sparirà e resterà solo una scia di pezzi di carta a ricordare - ma a chi poi? - le traiettorie culturali da lei segnate. Anche quelle comunque come il sasso nell'acqua, formeranno cerchi sempre più leggeri e in breve se ne perderà la traccia.
Lei già non esiste più. E il sipario si apre su un palcoscenico vuoto, in un teatro vuoto dove lavorano ormai solo tecnici impegnati a oliare gli ingranaggi di un macchinario inutile.
Restano le locandine accatastate nella rimessa del custode. Restano i biglietti invenduti di tutti coloro che non partecipano più allo spettacolo di altri.
I miei lettori infatti sono rarissimi. Io leggo pochissimi autori. C'è perfetta sincronia di disattenzioni. Una mancanza di curiosità mascherata dall'informazione. Ci sono troppe parole che appartengono ad un inattuale vocabolario tragico ed è così che è stata operata l'anestesia dei sentimenti. I sensi di plastica ci concedono un alleggerimento ulteriore: la permanenza in superfice. I miei biglietti del treno galleggiano su di un liquido calmo, silenzioso, anaerotico.
Ricontrollando il sipario vedo meglio: ci sono centinaia di tavoli da gioco accatastati nel buio del grande palcoscenico. Pile di gambe ribaltate alte fino al cielo. Quei tavoli non sono un decoro, la machiné di qualche commediografo, quei tavoli stanno lì perché ora il teatro è un magazzino perché non esistono più giochi condivisi, condivisibili. Ci sono solo solitari. Nessuna tomba di famiglia.