domenica 15 febbraio 2009

MedioMan

A un certo punto M si chiede se non sia meglio lasciar perdere. M che non è né carne né pesce, né capo né coda; M che è guardato come strano esemplare negli ambienti che frequenta. M che non riesce ad avere una seria competenza scientifica, M che al lavoro pensa a Santa Maria degli Angioli e la notte sogna il suo capo che lo redarguisce.
M che non ha i soldi per un 'aiuto domestico' e la sua casa fa schifo perché la domenica è stanco; M che vorrebbe comprarsi un sacco di cose che ha sacrificate per il lusso della ricerca.
M è anche un tantino invecchiato, mica è più un giovinetto; si chiede, in piedi in bagno gli occhi fissi nello specchio, se quei segni attorno agli occhi sono più evidenti dell'anno precedente; si chiede se riuscirà a finire – bene – qualcosa a cui sta lavorando, e si chiede anche, ovviamente, se ha fatto le scelte giuste. Mica è originale, M, lo sa che tutti se lo chiedono prima o poi. Non ha neanche questa consolazione, il nostro. E' sopra le righe quanto un aiuto-tecnico dell'ufficio sinistri di un paesino del novarese.

mercoledì 17 dicembre 2008

Il lato B

Il mondo sottomette qualunque opera a un'alternativa; quella della riuscita o del fallimento, della vittoria o della sconfitta. Io protesto affinché venga presa in conto un'altra logica: io sono contemporaneamente e contraddittoriamente gioioso e disperato...
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso

"B" è una lettera a cui sono affezionata. L'iniziale della mia città, Bologna, il lato b dei vinili che conservo gelosamente - tutti a bassissima fedeltà - la consonante del soprannome di uno dei membri dei CT il Baro, la serie b, le bare dei morti, i baroni universitari e molte altre cose.
Ringrazio l'anonimo "Studente di B" per questa considerazione così giusta, forse fin troppo vera.
Ad Agosto però non c'era nessun vento leggero ma un lutto che mi porto ancora appresso.
Ma questa non vuol essere una scusante semmai cercherò di renderla una grande opportunità.

sabato 13 dicembre 2008

Omaggio allo Scultore


Potrete decidere delle vostre leggi ma il tribunale in cui sarete giudicati è sempre la tomba

C'è questo bisogno tutto umano di ricostruire il mondo fuori da sé. Sartre descrive il costante lavoro di creazione-distruzione nella scultura di Giacometti come un modo per avvicinarsi alla vita. Lo affascina, di quelle eteree e carnalissime figure, la presenza imminente nel mondo dei vivi. Loro, le immagini, ancora più vive perché fatte per morire.
Mi rapisce questa idea del padre che crea un figlio perfetto solo perché ne ha già pattuito il destino.
Non esiste forma che possa soddisfare questo "eterno". L'artista, solo, s'appaga e appaga di questa parziale esattezza, la mente umana non ne vede una più precisa, che è la padronanza della narrazione, compresa la fine. Non vedo differenza tra tecniche e temporalità: tutti, indistintamente, operano un tentativo di salvazione.
Gli altri, gli altri artisti farisei, non vedono al di là dello specchio ma riproducono infinite volte un'inutile immagine riflessa.
L'arte risponde per prima a questa necessità che non è capire ma salvare.

Metafora di un fraintendimento

Ci sono sempre molti luoghi condivisi tra due persone il cui destino si biforca progressivamente come le radici di un vecchio albero. Capita, a volte, che questi fenomeni di separazione non siano netti tagli di scure ma naturali inclinazioni, comprese e condivise da entrambi. In queste occasioni, quando per una coincidenza o volontà del destino, gli attori della scena precedente si reincontrano avvengono bizzarre florescenze. Fu così che mi capitò d'essere presente il giorno in cui M. e K. ricomparvero sul palcoscenico. Continuava a piovere e c'era poca luce ma si videro ugualmente: lui avvolto in una sciarpa di fumo grigio lei più precisa d'una volta. S'accolsero con sincera emozione, senza sentimentalismi, con il distacco che si conviene a chi un tempo ha conosciuto le volontà e le negligenze dell'altro. Lui ed io aspettavamo, forse un po' invecchiati, che aprisse la biglietteria del cinema ma quando M. comparve decidemmo d'andare tutti insieme a mangiare qualcosa. Non era né presto né tardi, uno strano orario visto che lui era abituato a cenare molto tardi, e trovammo facilmente posto in un piccolo ristorante che non aveva ricordi per nessuno di noi. Dopo l'antipasto stavamo già ripensando a quell'ultimo anno d'università e, mentre i tavoli intorno a noi si riempivano di sconosciuti, M. parlò del fatto: "Sai, credevo che ce l'avremmo fatta, che tu fossi veramente dalla mia parte, che il giornale e tutto il resto significassero qualcosa anche per te". K. la guardava fisso con un sorriso comprensivo e sapeva che lei non avrebbe mai veramente accettato: "Ma io ci credevo, credevo in te, del progetto, delle idee di cui parlavi, non ho mai capito molto". Lui era innamorato di lei, credeva, lui però non varebbe mai abbandonato il suo destino costruito con tanta meticolosa attenzione per seguirla. Lei era innamorata di quello che lui rappresentava e non l'avrebbe mai convinto a barattare quel fraintendimento per una vita insieme. Conservavo ancora a casa mia i tre numeri usciti di quel costoso esperimento: lui aveva dato fondo ai suoi risparmi personali per realizzarlo, lei ci aveva lavorato giorno e notte e tutte le ore in cui lui non c'era, tutte le giornate in cui lui svolgeva la sua vita ufficiale altrove. Ci fu, effettivamente, un momento in cui le aspettative, le aspirazioni e i sentimenti divennero così precisi che non soltanto io - coinquilino di K. - ma tutti, tutti, s'accorsero di quello che stava accadendo. Forse fu proprio solo M. a non accettare il ruolo che le veniva attribuito e se ne andò. Fu lei, da un punto di vista formale, a interrompere quell'esperienza. Ma era lei che soffriva maggiormente. Questa ovviamente è una verità retroattiva che ho colto dal bisogno delle sue parole di trovare una spiegazione, anche dopo tanti anni. Lui di ragioni non ne cerca. K. si sveglia tutte le mattine nello stesso letto, anche se è in una nuova città. M. dorme su di un albero anche quando è a casa sua. Lui la vede, credo, fuori dalla finestra, in lontananza. Non sa davvero se sia le ma lo intuisce. Non sa davvero se sia lei perché non è mai uscito di casa la notte per andarle incontro, per verificare se quell'ombra sia carne. L'ultima volta che ricordo d'averli visti felici, ancora ignari o volontariamente ciechi, eravamo distesi su di un prato di notte e un vecchio marionettista blu smontava il suo teatrino a due passi da noi. Non ho chiesto loro nulla di quella notte perché ho paura che uno dei due, o forse entrambi, l'abbiano dimenticata.
Quando ci siamo salutati ormai era giorno ed io sapevo che avrei portato con me l'unico ricordo sereno di quel grande fraintendimento. K. ha un lavoro di grande responsabilità oggi, è ben pagato e sua moglie ha partorito una bambina che gli somiglia come una goccia d'acqua. M. sbarca il lunario, il suo nome è rispettato negli ambienti scientifici, non si è mai sposata e non ha ancora una casa di proprietà.

venerdì 12 dicembre 2008

Where is Alan P.?

After the french party


Special thanks Giulia

After the trip

martedì 2 dicembre 2008

A bassissima definizione

Babele



Ai costruttori della Torre di Babele mancava il cemento armato. A noi manca la confusione tra le lingue che ci servirebbe per portare a termine la Torre. Non esiste soluzione per la città.


A chi mi sta chiedendo cos'abbiano a che fare questi racconti con l'architettura ricordo che il progetto di una narrazione non è dissimile da quello per un edificio.
Ho solo il privilegio rispetto a voi, cari architetti, di gestire una materia molto più duttile - la parola - ma ho la grande disgrazia di aver capito che questa, rispetto alla solida pietra o al ruvido cemento, mi tradirà sempre.
Mi rimproverate di non sporcarmi le mani in cantiere ma non vi chedete quanti treni abbia perso e quanti occhiali abbia consumato per trovare i miei personaggi.
Mi accusate di non conoscere gli strumenti del mestiere, infatti non conosco quelli del vostro mestiere, che sono linee e superfici, ma indago continuamente quelli del mio, che sono le figure e la trama.
In ultimo dichiarate che io un mestiere non ce l'ho e credo che questa sia la condizione fondamentale per chiunque voglia manipolare i sogni, le utopie e la realtà.

Buon Compleanno Tamp

lunedì 1 dicembre 2008

La règle du jeu



[®acconti inediti 2008]

Le comunicazioni degli eventi cadevano nella casella postale come rare gocce in una cisterna e l'impressione che lasciavno su di me era quella di cerchi perpetui, non riparabili. Restavano lì, gli incontri previsti, annunciati poi consumati, nell'aula tal dei tali, presso la biblioteca nel chiostro xy, nella piazza o per la via, della città così e cosà, e i biglietti del treno che mi portava in questi luoghi s'accumulavano nel portafoglio. Troppo pochi per essere gettati via con regolarità, troppi per non creare in me un sospetto d'abuso. Il mio nomadismo non lasciava altre tracce al di fuori dei cerchi perpetui formati dalle rare gocce delle mie missioni. A differenza dell'eroe che ha un pubblico numeroso e appassionato i miei movimenti, le mie avventure, come quelle della maggior parte degli utenti che mi circondava, esistevano solo nel timbro dei suddetti biglietti. Obliteravo i miei rari incontri con la vita e per il resto aspettavo, davanti a uno schermo, che qualche segretaria di dipartimento m'inviasse la mappa verbale della meta successiva.
Il suono della posta ricevuta era il terzo campanello prima dell'inizio dello spettacolo. Le luci già spente. Un brusio sommesso. Si apre il sipario.
Vorrei creare un libro fatto dei flyer di conferenze, vernici, letture, presentazioni. Gli inviti. Che negli anni dedicati alla "formazione di un sapere" hanno significato per me l'appartenenza ad una setta il cui simbolo segreto stava racchiuso nel tesserino universitario plastificato sui due lati, con l'orrenda foto segnaletica, la firma e i timbri complanari. Lei è membro ufficiale della sacra famiglia dei baroni. Per tre anni le offriremo il privilegio d'affollare le aule scrostate dei nostri antichi palazzi, la inviteremo ad ogni inutile manifestazione - tanto per fare numero - e per il resto del tempo, come si conviene ad ogni segretissima associazione a delinquere, la ignoreremo. Allo scoccare della mezzanotte del terzo anno lei sparirà e resterà solo una scia di pezzi di carta a ricordare - ma a chi poi? - le traiettorie culturali da lei segnate. Anche quelle comunque come il sasso nell'acqua, formeranno cerchi sempre più leggeri e in breve se ne perderà la traccia.
Lei già non esiste più. E il sipario si apre su un palcoscenico vuoto, in un teatro vuoto dove lavorano ormai solo tecnici impegnati a oliare gli ingranaggi di un macchinario inutile.
Restano le locandine accatastate nella rimessa del custode. Restano i biglietti invenduti di tutti coloro che non partecipano più allo spettacolo di altri.
I miei lettori infatti sono rarissimi. Io leggo pochissimi autori. C'è perfetta sincronia di disattenzioni. Una mancanza di curiosità mascherata dall'informazione. Ci sono troppe parole che appartengono ad un inattuale vocabolario tragico ed è così che è stata operata l'anestesia dei sentimenti. I sensi di plastica ci concedono un alleggerimento ulteriore: la permanenza in superfice. I miei biglietti del treno galleggiano su di un liquido calmo, silenzioso, anaerotico.
Ricontrollando il sipario vedo meglio: ci sono centinaia di tavoli da gioco accatastati nel buio del grande palcoscenico. Pile di gambe ribaltate alte fino al cielo. Quei tavoli non sono un decoro, la machiné di qualche commediografo, quei tavoli stanno lì perché ora il teatro è un magazzino perché non esistono più giochi condivisi, condivisibili. Ci sono solo solitari. Nessuna tomba di famiglia.

sabato 29 novembre 2008

Il Maestro e Margherita

venerdì 28 novembre 2008

In morte di Don Juan. Prologo

[®acconti inediti 2008]

"Per essere libero non puoi essere appassionato". J-P Sartre

Ricevo questa mail alle 5:42 am mentre la pioggia inizia a scrosciare sui tetti di Bologna. La mia insonnia peggiora ma stanotte ho la scusa dell'indigesta bistecca al sangue - stavolta veramente cruda - ingurgitata ieri sera. Ha il profumo della tapioca, questa mail, e mi riporta a una lunga traversata notturna. Prima di partire, sulla veranda, ascoltavamo l'unico frammento di memoria che avevo salvato. Un cd arrivato per caso perché nella fretta dell'ultima ora era caduto in valigia. E' ancora là quel disco, l'aspettava. Lo ha trovato lunedì riaprendo la porta di casa dopo alcuni mesi d'assenza. Una galera arrampicarmi fino in cima, con il vento sgarbato e la bici pesante, ma glielo dovevo. Poi, in onestà, non c'è nulla di più emozionante di un regalo che aspetta in silenzio. Non c'è niente di più narcisista.
"I killed him" inizia la lettera. Avrebbe potuto finire lì. Il resto è una descrizione superflua delle contingenze. Don Giovanni, il suo amante, lo aveva ucciso in verità molto prima, forse proprio quella notte sulla veranda mentre il mio lutto era più consolatorio del suo amore.
Anche se piove ho voglia d'andare sui colli e pensare che dall'altra parte del mondo una piccola ragazza dal sorriso ammaliante e gli occhi pungenti ha compiuto un destino. Questa storia potrebbe perfino costituire la materia per una nuova mitologia.
Rientrando dai colli, nell'insonnia della prossima notte, racconterò la sua storia.

giovedì 27 novembre 2008

Ai dottorandi che prenderanno in mano Citytaste

Continuate a fare. Non smettete neppure un momento, per carità. Ho creduto in questo strumento del blog e di Citytaste ed ora ve lo cedo o meglio ve lo concedo senza difficoltà. Potrei dirvi che la ragione del mio abbandono, la ragione di un certo fallimento dunque, riguarda la mancata coesione del gruppo. L'assenza di una leadership forte, la debolezza dei programmi, la faciloneria di alcuni, i veri mestieranti che non sono certo "Il mestierante". Potrei dirvi che il mio statuto non produttivo in seno alla pratica architettonica è stato il vero limite, potrei dirvi che mi sono circondata di collaboratori scadenti, che un capitano di ventura dovrebbe saper scegliere le proprie maestranze. Scendendo e scavando posso ammettere la mancanza di un nemico, l'assenza di qualcuno che s'incazzi vedendosi dare pubblicamente dell'imbecille. Potrei dirvi che il fallimento è la confusione sul vostro mestiere: palazzinari travestiti sotto spoglie d'artisti. Ché dopo tre anni di dottorato nella ridente Italia dell'architettura non me ne frega davvero più nulla. Posso prendermi tutte le responsabilità - che tanto non capireste - posso lasciarvi questa macchina di cui non conoscete il funzionamento (e lo s'intuisce dalle facce poco sveglie che ho incrociato in aula magna alcune settimane orsono).
Ma il problema è un pò più grave. Il problema è il destino di ciò che siamo, il problema sono le miriadi di droghe legali che assumiamo sotto forma di parole coercitive: lavoro, successo, denaro, potere, salute, amore, tempo.
Vi lascio davvero tutto perché in questo momento scrivo dal carcere e non m'occorre nulla. Non c'è alcuna libertà e anche la maglia che indosso è un peso.
Nelle ultime ore lo stato dei miei pensieri s'è aggravato e se fino a poco fa ho creduto di potermi salvare attraverso le parole adesso anche quelle sono un veleno. Mi chiedo che cosa accade nel silenzio.
A voi che prenderete in mano i CT dispenso alcune perle che, nel vostro caso, sono assolutamente date in pasto ai porci:

Chedetevi qual è l'ultima volta che vi siete emozionati davanti a un'opera d'arte.
Se sarete onesti la risposta sarà mai altrimenti non fareste gli architetti.

mercoledì 26 novembre 2008

Autoritratto



[®acconti inediti 2008]

Quando l'ultimo inquisitore sarà morto anche le streghe scompariranno.

Quest'affermazione rimbalza sui muri della stanza tappezzata di lenzuoli bianchi.

A. Sappiamo enrambi che è una provocazione perché anche se le persone muoiono i personaggi restano immutati. Come quei castelli della Scozia, che non vedremo mai insieme, in cui mura umide e solidissime si sgretolano solo in superficie. I personaggi restano immutati, forse cambiano pelle con il passare delle mode, ma le imponenti pietre del loro statuto mitico sono quasi indistruttibili.
M. Infatti stai parlando con il mio personaggio. Anzi, stai scrivendo al mio personaggio, di me non hai mai saputo molto...
A. Sto cercando di dire che siamo destinati a rappresentarci, così come siamo, in un'infinita galleria di autoritratti, tentando di attenuare quei difetti, volendo cogliere certe luci potenti, ritoccando ossessivamente il punto di giallo su labbro inferiore. Sai che mi sono chiesto spesso se non fossero tutti autoritratti, anche quest'odore di chiuso, il fatto che non siamo più vivi, che respiriamo e ci affanniamo, che apriamo e chiudiamo la porta.
M. Mi pareva ci fossi anche tu, ma mi sbaglio, a quella mostra quando per la prima volta vidi il volto di Maria Casares. Quando per la prima volta vidi il volto di Maria.
Fumava quella sigaretta di smalto rosso e gli studenti della Sorbona prendevano appunti davanti allo schermo infestato dai fantasmi di Cocteau.

Lei, la strega, con quegli occhi più forti del destino, diceva ad Orfeo:

La nostra più grande punizione è quella d'essere giudici. Dovere giudicare.

A. Questa notte sono tornate a visitarmi le donne francesi. Accade sempre un piccolo presagio prima dei viaggi. A Parigi ci sono tre luoghi in cui mi è impossibile non ricordarti. La spianata del Plateau ma solo d'inverno quando si sente il fumo delle caldarroste, il cimitero di Pére-Lachaise, in cui non sono più tornato anche se ci vivevo accanto, e il Trocadero.
M. Lui sosteneva che non ci si può innamorare dei luoghi, che esiste sempre una storia, una relazione. L'altro da noi, presente o assente, che dà senso allo stare, che impreziosisce la permanenza. Io sostenevo che anche nella più perfetta solitudine si può cucire una narrazione. Lui mi chiedeva perché ora, in questo preciso esatto subitaneo momento, fossi tanto innamorata di questa città. Mentre lo ascoltavo pensavo all'altra. L'amore presuppone un grado d'infedeltà.
A. Ho sempre scelto i luoghi: i miei autoritratti a differenza dei tuoi sono mappature, snodi della metropolitana, strade percorse infinite volte, biglietti del treno, valige, scontrini dei bar.
M. L'autoritratto che preferisco sei tu alla stazione di Bologna la sera, verso le dieci meno un quarto, quando aspetti al primo binario il treno per Parigi.
A. Niente d'esotico, solo il bisogno di una bigamia giustificata, poligamia magari. Niente di più banale di questa immagine senza mercato. Invendibile.
M. Quando lo rivedrò a Parigi mi chiederà di professare la mia fede. Mi obbligherà a scegliere. Allora dovrò tradire il mio sentimento o accettare il destino della pira su cui prima o poi verrà bruciata anche l'ultima strega.

Il fotografo

[®acconti inediti 2008]

Sono un vedutista. Ho ereditato questa passione da mio nonno paterno che trascorreva le mattinate camminando per le periferie ad osservare i cantieri rumorosi. Spesso andavo con lui. Ero molto piccolo e l'immagine che mi si è fissata nella mente - quella della città intendo - è la finestra prospettica formata da una griglia metallica arrugginita dentro cui si schiude una sintassi di edifici non finiti, in costruzione. Mio nonno era metodico, come tutte le persone anziane, e tornava negli stessi luoghi con cadenza settimanale. Ebbi l'occasione, con lui, di vedere profondi crateri trasformati in compatti palazzi, spianate divenute fabbriche, piloni tramutati in ponti. Quando il cantiere si concludeva, prima delle finiture, prima dell'intonaco e delle scritte al neon, prima dei numeri civici e delle piante sui balconi, sempre un po' prima mio nonno smetteva d'andarci. Quasi come se scaramanticamente volesse soprassedere alla conclusione delle cose, alla fine dei lavori.
Così m'è rimasta questa passione per i limiti urbani, questo taglio impressionista, acquerello e abbozzo narrativo, veloce. Nel mio campo non sarò mai un romanziere né un poeta, perché resto sulla superfice della tela, perché non so approfondire, creare il dettaglio.
Mi apposto ai margini della città, dove il rombo degli aeroplani e i tonfi delle scavatrici formano l'unico paesaggio sonoro possibile. Mi fermo lì, in mezzo al movimento assordante della gente che fa, dei costruttori di mondi. Li osservo per ore, per giorni, li seguo come i falchi a circonferenze sempre più strette e a volte non ne ricavo che pochi scatti. Impressioni.
Questa mancanza è stata, per me, ragione di molte e lunghe sofferenze, vergogna di non saper e non poter fare. Di più. Mi sono sempre considerato incapace di scendere in verticale, incapace di usare i colori a olio che soffocano qualunque via di fuga. Poi questa menomazione è diventata la cifra costitutiva delle mie opere e sulle mie mancanze ho costruito questo mestiere.
L'estrema solitudine delle folle, il disagio e la quiete apparente.

martedì 25 novembre 2008

Jaques Attali

[®acconti inediti 2008]

Lo colpì la perfetta sincronia degli accadimenti. Mentre una neve spavalda copriva le cose e lui girava il cucchiaino nella tazza di tè. Si accorse che il negozio del fioraio aveva chiuso, chissà da quanto, e chissà da quanto lui non regalava più fiori. L'articolo a pagina 40 - leggerlo significava arrivare in ritardo all'appuntamento - così, semplicemente, sfilò il foglio di carta dal giornale e lo piegò con cura nel taschino. Pagò e uscì. Quel giorno tutto sarebbe andato bene, pensò.
La conversazione della sera prima era stata penosa, lei sgranava gli occhi color fumo e sembrava sarebbe morta da un momento all'altro. Lui pensava che l'altra lo aspettava nell'appartamento di Via Kuliscioff al numero 21, interno 8. Aveva segnato tutto sull'agenda, ché quella parte della città proprio non la conosceva. Sobborghi inquinati da un'edilizia sommaria, sputata di cemento e popolata da giovani coppie poco alfabetizzate. Infatti anche M. era una donna così, sanguigna e volgare ma con un'energia che l'aveva conquistato. Rideva forte e sembrava andasse perfettamente d'accordo con la vita. Non si lamentava mai.
La conversazione a un certo punto era diventata un monologo, lei con quelle dita ossute sottolineava le parole, formava arabeschi di frasi leggere, costruiva ipotesi e rafforzava convinzioni. Le avrebbe voluto dire che non c'era davvero più nulla da fare, che era troppo tardi, che non era stata capace, in tutti quegli anni, di vedere nulla. Guardava l'orologio e pensava a M. che lo aspettava.
Un cristallo di neve lo centrò sul viso, perfetto come un colpo di pistola, lui sentì per un momento quell'odore di profumo dozzinale che gli si era impigliato addosso durante la notte: il profumo di M. L'avrebbe già voluta chiamare, solo per sentire quel timbro allegro, l'accento forte, solo per sentirsi un pò più uomo. Il cliente lo aspettava fumando una sigaretta sulla porta, entrando si lasciò alle spalle tutto e pensò che se si fosse sbrigato avrebbe avuto il tempo di leggere l'articolo di Attali sulla poligamia e i rapporti a termine. Se si fosse sbrigato sarebbe passato a comprare una rosa rossa per M.; M. era chiaramente una donna che apprezzava le rose rosse.
L'ultima cosa che pensò, prima di cancellare i numeri di entrambe dalla memoria del telefono fu a quella frase di Adam Phillips
Di fronte al piacere siamo tutti degli asceti:l'idea di soffrire per i suoi eccessi ci terrorizza. Per alcuni il miglior rimedio è l'infedeltà; per altri la monogamia.

lunedì 24 novembre 2008

I left the party down


[®acconti inediti 2008]

Tradire. Il sogno che mi rimane impresso questa mattina è uno di quelli che non segno nel taccuino. Decido autonomamente quale interpretazione applicarvi. Lo escludo dal meticoloso elenco delle mie memorie notturne sapendo che sto producendo un archivio edulcorato e monco. Sto creando di me un'immagine niente affatto reale. Chiamo a raccolta i miei esegeti futuri per scusarmi della sciocca furberia: loro sapranno vedere quello che manca, quello che ho voluto tacere. Loro ascolteranno quei silenzi e daranno un ritmo alla mia storia.
Alle quattro di mattina mi ha svegliato il sentore di una conversazione importante che era sfumata per colpa delle modalità: per educazione una persona ha glissato sul mio atteggiamento.
Sono costretta a tornare su alcune frasi, mi sveglio del tutto con una certa riluttanza.
"Tu non sai quello che è successo prima". Chiaramente è questa la frase che mi disturba. Sono settimane che posto nel blog considerazioni sul concetto appunto di "post" o "after". Scrivo dei post dal titolo after citando il padiglione del Belgio all'ultima Biennale. Un padiglione che mi ha emozionata: l'unico.
"Tu non sai quello che è successo prima". Ma è proprio questo il punto. Sono settimane che tento di comunicare questa condizione d'impotenza di chi arriva alla fine della festa ed è talmente in ritardo sui tempi che anche gli ultimi ospiti sono andati via, che i padroni di casa sono andati via e la porta è aperta a tutti perché è talmente tardi che hanno portato via anche i mobili. Resta solo una montagna dantesca di coriandoli (confetti in duch). Memoria effimera di un evento concluso.
Costituzionalmente arrivo sempre alla fine della festa. E quel che posso fare in questa stanza vuota è tentare d'immaginare ciò che è stato. Per non morire, per non impazzire. Non c'è neppure una chaise-longue in cui interpretare un personaggio freudiano: solo il silenzio ovattato da milioni di frammenti di carta colorata.
"Tu non sai quello che è successo prima". Allora me lo immagino in assenza. Ma anche se fossi un'archeologa meticolosa in quella stanza non c'è proprio più nulla da indagare. Faccio con quel che mi resta. Frammenti effimeri con cui devo ricostituire un'identità, un tutto.
"Tu non sai quello che è successo prima". Inizio con un'ipotesi intuitiva; inizio da dove posso con quel che ho, che è poco, pochissimo. E quella voce mi tormenta parecchio e sono già le cinque suonate e se fossi sana di testa andrei a dormire, mi sveglierei alle otto meno venti, bigodini, caffé, bacetto a figli e marito e ufficio. Ma anche per questo incubo borghese, che è comunque consolatorio, sono arrivata davvero troppo tardi e che sia giorno o notte ha sempre meno importanza che tanto non devo svegliare nessuno e nessun capufficio mi sgriderà se non timbro il cartellino.
"Tu non sai quello che è successo prima". Infatti tutto quello di cui parlo è una falsificazione. Tradisco continuamente lo stato delle cose. Piego i vuoti fino a farli diventare forme. Lì c'era una casa fatta di latta e infissi scadenti, mi dice la voce fuoricampo, eppure io mi lamento perché vedo un palazzo e mi aspetterei una reggia. Ma quel che c'era prima non lo so, mi manca lo stadio della fatica altrui, mi manca lo storyboard dei cantieri immaginari: non mi sono mai chiesta da quale fatica fossero nate le città costruite da Italo Calvino. Eppure per mesi ho raccontato le vicende di Marco Polo e del grande Khan.
"Tu non sai quello che è successo prima". Ma è un'accusa di pregiudizio o di mancanza di empatia? Apro il giornale di ieri e leggo la storia dell'Assenzio e di come una generazione abbia consapevolmente creato il concetto d'individualismo. Isolati e non compresi Verlaine, Wilde, Baudelaire erano tutti dei ritardatari cronici e alle feste preferivano il minuto tavolino di un caffé. Ma io alla collettività non ci posso proprio rinunciare e devo capire i rapporti.
"Tu non sai quello che è successo prima". Ormai sono le 6 e 15 e ho le dita ghiacciate. La solitudine di questa stanza è l'unico posto in cui posso vivere. I tradimenti sono tentativi per riempirla, la stanza. Sono tradimenti d'attesa perché prima o poi m'abituerò anche a questo vuoto e dell'archivio del mondo non sarò più interprete ma custode.
Sta facendo giorno e come previsto anche la voce fuoricampo scompare, a me resta solo la classica nausea per mancanza di sonno, cerco biscotti in cucina e trovo un nuovo pezzo della collezione di D., un frullatore giallo del 1973. Anche lui in fondo non fa forse la stessa operazione? Una collezione di oggetti che non funzionano più. Senza speranza che prima o poi possano essere riparati. Tradisce, nell'erigerli a parti di un desiderio, il loro primo scopo che è quello funzionale. Svela, nel conservarli, un bisogno straziante dell'uomo di riempire anche le stanze dei morti.

sabato 22 novembre 2008

LuPo

venerdì 21 novembre 2008

Confetti


[®acconti inediti 2008]

"Nella carestia di parole rileggevo i messaggi dell’inizio". Aveva questa frase in testa che ormai l'accompagnava da giorni. L'inseguiva per le strade fioche e scrostate protette dai portici bassi, verso la periferia dove le traiettorie sono dritte e trafficate. Gli rammentava, la frase, che non stava cercando parole ma luoghi. I luoghi dell'inizio. "Devo ripercorrerli ora, all'alba, quando resta solo un tappeto di coriandoli e una solitaria fotografia sulla parete bianca". Degli avvenimenti non sapeva nulla perché era arrivato dopo. Troppo tardi. "E continuo a piegare per la viuzza chiassosa sperando che mi salvi". E continuavano a parlare imbarazzati senza dirsi nulla. "Se mi chedesse, se volesse sapere, potrei raccontare solo della fine della festa e dei resti che mi porto appresso". Nessun messaggio conservato. Non gli servivano. Tutto era nei passi continui e veloci con cui perimetrava la città.

mercoledì 19 novembre 2008

After the post

Il post che segue è una personale riflessione legata alla conferenza di Françoise Choay svoltasi ieri pomeriggio presso l'aula magna della facoltà di architettura di Firenze, sede via Micheli 2.
La mia rabbia sta aumentando al punto che poco fa, mentre scrivevo, ho perfino insultato il postino per aver suonato alla porta.
[Forse ha ragione la mia amica G.quando sostiene che saremmo state meglio prima del Sessantotto. Lei avrebbe aperto una merceria o fatto la maestra, io avrei scritto romanzi rosa a puntate per qualche quotidiano di provincia, la mia amica J.sarebbe rimasta a cavalcare nella tenuta campestre mentre la signorina S. avrebbe trovato un facoltoso marito].

After the Academy

Gli urbanisti che tentano di fare i filosofi davanti ad una filosofa che è stata modello e ispirazione per generazioni di urbanisti è tanto ridicolo quanto gli architetti che si fingono artisti.
Nell'ennesimo consesso di Conti Dracula delle economie universitarie, sanguisuga accademici uccisori di giovani menti fingevano un decoro che li rendeva solo più imbarazzanti.
Mancavano, a questo banchetto di sconvenienti autorappresentazioni senza ironia, i cuochi della grande abbuffata: amministratori e politicanti.
Inutili accademici, di cui non ricorderei il nome neppure sotto tortura, fingevano di sapere e poter esistere fuori da quella squallida aula magna.
Andate a studiare le leggi buffoni e lasciate ai veri filosofi il compito di parlare di teoretica.
Troppo comodo citare Severino per darsi l'alibi del "non far niente".
L'unico destino che vedo compiuto è quello del fallimento di questa istituzione, l' Università, per colpa vostra!
La maggior tristezza è osservare tra voi anche solo uno che potrebbe intervenire e che non lo farà perché la corporazione è più forte di qualunque metafisica.
Gli strumenti del sapere, le tecniche (anche la retorica imbecilli lo è!) di cui vi riempite la lorda bocca, nelle vostre mani sono bombe a orologeria: perché grazie al potere del ruolo riuscite a trasformare innocui petardi in devastanti ordigni.
Spero solo che vi scoppino in mano!

lunedì 17 novembre 2008

Al Mestierante

Caro Mestierante,
se ti rimanesse un momento di tempo a fine giornata t'invito a leggere questo racconto.
Dedicato a un'amica, potrebbe stupirti. Vedere che ancora c'è chi capisce.
A me ha ricordato quella canzone di Roberto Vecchioni che sul destino dice tanto, forse troppo.
Caro Mestierante,
ci sono stati molti giorni di sole inutile. Apparentemente inutile. Lo vedrai attraverso i vetri rigati dalla pioggia.
Caro Mestierante,
non si rinuncia a nessuna torta senza avere almeno una caramella in tasca. Diffida sempre dei sorrisi perfetti e delle pance troppo piatte. Chi è a digiuno da troppo tempo o muore o ti mangia.
Caro Mestierante,
sono davvero pochi su questa terra coloro che chiamo uomini.
In ogni caso quel racconto di mare è davvero molto bello.

La grande fuga II

venerdì 14 novembre 2008

Per Elisa

Quando Stefano Roí compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di maree padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle naviancora più belle e grandi della tua. »« Che Dio ti benedica, figliolo » rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suobastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai statosulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. Echiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave.Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente. Il padre, non vedendo Stefano piú in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.« Stefano, che cosa fai lí impalato? » gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi,che fissava le onde.« Papà, vieni qui a vedere. »Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscí avedere niente.« C'è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia » disse « e che ci viene dietro. »« Nonostante i miei quarant'anni » disse il padre « credo di avere ancora una vistabuona. Ma non vedo assolutamente niente. »Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.« Cos'è? Perché fai quella faccia? »« Oh, non ti avessi ascoltato » esclamò il capitano. « Io adesso temo per te. Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è uncolombre. E’ il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. E’ uno squalo tremendo e misterioso, piú astuto dell'uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l'ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue. »« Non è una favola? »«No. Io non l'avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l'ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c'è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra,tu sbarcherai e non ti staccherai mai piú dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Melo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Delresto, anche a terra potrai fare fortuna.» Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, coi pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo.Quindi ripartí senza di lui.Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l'ultimo picco dell'alberaturasprofondò dietro l'orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restòcompletamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscí a scorgere unpuntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociavalentamente su e giú, ostinato ad aspettarlo.Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lomandò a studiare in una città dell'interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualchetempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò piú al mostro marino. Tuttavia,per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa. appena ebbe un minuto libero, siaffrettò a raggiungere l'estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondolo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta lastoria narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all'assedio.Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecentometri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giú, lentamente, ognitanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva. Cosí, l'idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne perStefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi inpiena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sí, centinaia di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dallepianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel piú remotocontinente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare piú vicino,con l'inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato. Stefano, ch'era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e, appenafu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, iprimi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando igiorni, anziché svanire, sembrava farsi piú insistente. Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora piúgrande è l'attrazione dell'abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione. L'avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, un tradimento alle tradizioni di famiglia. E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza allefatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, digiorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, nontrovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.« Non vedete niente da quella parte? » chiedeva di quando in quando ai compagni,indicando la scia. « No, noi non vediamo proprio niente. Perché? » « Non so. Mipareva... »« Non avrai mica visto per caso un colombre » facevano quelli, ridendo e toccandoferro.« Perché ridete? Perché toccate ferro? »« Perché il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto. »Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lottae di pericolo.Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentí padrone del mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare unmercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre piú ambiziosi. Ma i successi, e imilioni, non servivano a togliergli dall'animo quel continuo assillo; né mai, d'altra parte,egli fu tentato di vendere la nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese. Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, mettevapiede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l'impazienza di ripartire. Sapeva chefuori c'era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente. Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all'altro. Finché, all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perchél’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso imari, per sfuggire al nemico. Ma piú grande che le gioie di una vita agiata e tranquillaera stata per lui sempre la tentazione dell'abisso. E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo dei porto dove era nato,si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro, sull'onore,promise.Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento,rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant'anni,inutilmente.« Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo » disse « con una fedeltà che neppure il piú nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui,ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo. »Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo essersi fattodare un arpione. « Ora gli vado incontro » annunciò. « E’ giusto che non lo deluda. Malotterò, con le mie ultime forze. » A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiú, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte. C'era in cielo una falce di luna. Non dovette faticare molto. All'im'provviso il muso orribile del colombre emerse difianco alla barca.« Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. « Adesso, a noi due! » E, raccogliendo lesuperstiti energie, alzò l'arpione per colpire.« Uh » mugolò con voce supplichevole il colombre « che lunga strada per trovarti. Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. Enon hai mai capito niente. » « Perché? » fece Stefano, punto sul vivo. « Perché non tiho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevoavuto soltanto l'incarico di consegnarti questo. » E lo squalo trasse fuori la lingua,porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente.Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore,e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi.« Ahimè! » disse scuotendo tristemente il capo.«Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.»«Addio, pover'uomo » rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre.Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancoraseduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo.Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro.A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamatokolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente loignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.

martedì 11 novembre 2008

After the wall

La grande fuga


La fuga, sosteneva Henri Laborit, può essere l'incipit di una discrepanza necessaria tra l'atteso e l'ignoto, un'avventura che porta a nuove conoscenze insomma. La fuga, sostenevano i pittori rinascimentali, è il punto di estrema tensione nella traiettoria del visibile, come dire il massimo piacere possibile attraverso lo sguardo. La fuga, nell'immaginario collettivo, è un atto di liberazione. Chi fugge, quindi, non è libero, forse anela ad esserlo, più probabilmente confonde una condizione fisica con uno stato di coscienza. Ci sono uomini liberi in un letto d'ospedale, e molti marinai cristallizzati dalla salsedine mentale. Si fugge sempre da qualcosa o verso qualcosa. Sto scappando da casa diceva Giannino Stoppani in arte Gianburrasca. Sto scappando a casa ho sentito spesso pronunciare da grigi signori all'ora del vespro nella stazione centrale, scivolavando affrettati giù da un treno. Mentre percorrevo quel pezzo di strada che sembra tanto più vicina a un frammento felliniano che al mio vivere quotidiano, LuPo mi ha ricordato quella frase che per lungo tempo ho tenuto affissa sulla porta di casa

Tutta l'infelicità umana deriva da un'unica causa:
non saper stare tranquilli in una stanza
Pascal

Mi capita ancora di fare l'errore e credere che aprire una porta significhi anche chiuderla. Mi capita ancora di dover uscire dalla stanza in cui ho fatto entrare qualcun altro supponendo, in modo stolto, che le chiavi per la toppa le possegga solo io. Mi capita continuamente di confondere le presenze e le assenze, in un continuo appello ai miei doveri che fuggono da tutte le parti.

After the party (Montréal)


Special thanks David (by bike in Bologna for a short trip)

giovedì 6 novembre 2008

lunedì 3 novembre 2008

After the party (-1)

Inebetiti dal piacere mediatico domani seguiremo sbavando la lotta per la presidenza.
Ridotti a neonati e vecchi digeriamo solo gli omogeneizzati della semplificazione del senso.
Guardiamo La 'Merica come una madre che fa la battona e noi siamo i figli papponi.
Sarebbe troppo difficile disvelare l'inganno.
Immagazzinare l'unico contenuto importante: quello delle cittadelle della cultura in cui si allevano filosofi non frustrati, ricercatori pagati, modelli e ribelli.
Gente che anche quando urla parla sotto voce per paura che qualche invidioso faccia lì quello che è stato fatto a casa nostra: corrompere il sapere.
Guardiamo l'Arena dei due finti gladiatori e fingiamo di non vedere che a pochi passi c'è l'Accademia.
Non leggiamo, non capiamo, ripetiamo macchinalmente che tutti fanno bene a fuggire.
Peggio dell'ignoranza c'è solo questa accettazione del miracolo: và, và in America figlio mio!