sabato 13 dicembre 2008

Metafora di un fraintendimento

Ci sono sempre molti luoghi condivisi tra due persone il cui destino si biforca progressivamente come le radici di un vecchio albero. Capita, a volte, che questi fenomeni di separazione non siano netti tagli di scure ma naturali inclinazioni, comprese e condivise da entrambi. In queste occasioni, quando per una coincidenza o volontà del destino, gli attori della scena precedente si reincontrano avvengono bizzarre florescenze. Fu così che mi capitò d'essere presente il giorno in cui M. e K. ricomparvero sul palcoscenico. Continuava a piovere e c'era poca luce ma si videro ugualmente: lui avvolto in una sciarpa di fumo grigio lei più precisa d'una volta. S'accolsero con sincera emozione, senza sentimentalismi, con il distacco che si conviene a chi un tempo ha conosciuto le volontà e le negligenze dell'altro. Lui ed io aspettavamo, forse un po' invecchiati, che aprisse la biglietteria del cinema ma quando M. comparve decidemmo d'andare tutti insieme a mangiare qualcosa. Non era né presto né tardi, uno strano orario visto che lui era abituato a cenare molto tardi, e trovammo facilmente posto in un piccolo ristorante che non aveva ricordi per nessuno di noi. Dopo l'antipasto stavamo già ripensando a quell'ultimo anno d'università e, mentre i tavoli intorno a noi si riempivano di sconosciuti, M. parlò del fatto: "Sai, credevo che ce l'avremmo fatta, che tu fossi veramente dalla mia parte, che il giornale e tutto il resto significassero qualcosa anche per te". K. la guardava fisso con un sorriso comprensivo e sapeva che lei non avrebbe mai veramente accettato: "Ma io ci credevo, credevo in te, del progetto, delle idee di cui parlavi, non ho mai capito molto". Lui era innamorato di lei, credeva, lui però non varebbe mai abbandonato il suo destino costruito con tanta meticolosa attenzione per seguirla. Lei era innamorata di quello che lui rappresentava e non l'avrebbe mai convinto a barattare quel fraintendimento per una vita insieme. Conservavo ancora a casa mia i tre numeri usciti di quel costoso esperimento: lui aveva dato fondo ai suoi risparmi personali per realizzarlo, lei ci aveva lavorato giorno e notte e tutte le ore in cui lui non c'era, tutte le giornate in cui lui svolgeva la sua vita ufficiale altrove. Ci fu, effettivamente, un momento in cui le aspettative, le aspirazioni e i sentimenti divennero così precisi che non soltanto io - coinquilino di K. - ma tutti, tutti, s'accorsero di quello che stava accadendo. Forse fu proprio solo M. a non accettare il ruolo che le veniva attribuito e se ne andò. Fu lei, da un punto di vista formale, a interrompere quell'esperienza. Ma era lei che soffriva maggiormente. Questa ovviamente è una verità retroattiva che ho colto dal bisogno delle sue parole di trovare una spiegazione, anche dopo tanti anni. Lui di ragioni non ne cerca. K. si sveglia tutte le mattine nello stesso letto, anche se è in una nuova città. M. dorme su di un albero anche quando è a casa sua. Lui la vede, credo, fuori dalla finestra, in lontananza. Non sa davvero se sia le ma lo intuisce. Non sa davvero se sia lei perché non è mai uscito di casa la notte per andarle incontro, per verificare se quell'ombra sia carne. L'ultima volta che ricordo d'averli visti felici, ancora ignari o volontariamente ciechi, eravamo distesi su di un prato di notte e un vecchio marionettista blu smontava il suo teatrino a due passi da noi. Non ho chiesto loro nulla di quella notte perché ho paura che uno dei due, o forse entrambi, l'abbiano dimenticata.
Quando ci siamo salutati ormai era giorno ed io sapevo che avrei portato con me l'unico ricordo sereno di quel grande fraintendimento. K. ha un lavoro di grande responsabilità oggi, è ben pagato e sua moglie ha partorito una bambina che gli somiglia come una goccia d'acqua. M. sbarca il lunario, il suo nome è rispettato negli ambienti scientifici, non si è mai sposata e non ha ancora una casa di proprietà.

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