lunedì 24 novembre 2008

I left the party down


[®acconti inediti 2008]

Tradire. Il sogno che mi rimane impresso questa mattina è uno di quelli che non segno nel taccuino. Decido autonomamente quale interpretazione applicarvi. Lo escludo dal meticoloso elenco delle mie memorie notturne sapendo che sto producendo un archivio edulcorato e monco. Sto creando di me un'immagine niente affatto reale. Chiamo a raccolta i miei esegeti futuri per scusarmi della sciocca furberia: loro sapranno vedere quello che manca, quello che ho voluto tacere. Loro ascolteranno quei silenzi e daranno un ritmo alla mia storia.
Alle quattro di mattina mi ha svegliato il sentore di una conversazione importante che era sfumata per colpa delle modalità: per educazione una persona ha glissato sul mio atteggiamento.
Sono costretta a tornare su alcune frasi, mi sveglio del tutto con una certa riluttanza.
"Tu non sai quello che è successo prima". Chiaramente è questa la frase che mi disturba. Sono settimane che posto nel blog considerazioni sul concetto appunto di "post" o "after". Scrivo dei post dal titolo after citando il padiglione del Belgio all'ultima Biennale. Un padiglione che mi ha emozionata: l'unico.
"Tu non sai quello che è successo prima". Ma è proprio questo il punto. Sono settimane che tento di comunicare questa condizione d'impotenza di chi arriva alla fine della festa ed è talmente in ritardo sui tempi che anche gli ultimi ospiti sono andati via, che i padroni di casa sono andati via e la porta è aperta a tutti perché è talmente tardi che hanno portato via anche i mobili. Resta solo una montagna dantesca di coriandoli (confetti in duch). Memoria effimera di un evento concluso.
Costituzionalmente arrivo sempre alla fine della festa. E quel che posso fare in questa stanza vuota è tentare d'immaginare ciò che è stato. Per non morire, per non impazzire. Non c'è neppure una chaise-longue in cui interpretare un personaggio freudiano: solo il silenzio ovattato da milioni di frammenti di carta colorata.
"Tu non sai quello che è successo prima". Allora me lo immagino in assenza. Ma anche se fossi un'archeologa meticolosa in quella stanza non c'è proprio più nulla da indagare. Faccio con quel che mi resta. Frammenti effimeri con cui devo ricostituire un'identità, un tutto.
"Tu non sai quello che è successo prima". Inizio con un'ipotesi intuitiva; inizio da dove posso con quel che ho, che è poco, pochissimo. E quella voce mi tormenta parecchio e sono già le cinque suonate e se fossi sana di testa andrei a dormire, mi sveglierei alle otto meno venti, bigodini, caffé, bacetto a figli e marito e ufficio. Ma anche per questo incubo borghese, che è comunque consolatorio, sono arrivata davvero troppo tardi e che sia giorno o notte ha sempre meno importanza che tanto non devo svegliare nessuno e nessun capufficio mi sgriderà se non timbro il cartellino.
"Tu non sai quello che è successo prima". Infatti tutto quello di cui parlo è una falsificazione. Tradisco continuamente lo stato delle cose. Piego i vuoti fino a farli diventare forme. Lì c'era una casa fatta di latta e infissi scadenti, mi dice la voce fuoricampo, eppure io mi lamento perché vedo un palazzo e mi aspetterei una reggia. Ma quel che c'era prima non lo so, mi manca lo stadio della fatica altrui, mi manca lo storyboard dei cantieri immaginari: non mi sono mai chiesta da quale fatica fossero nate le città costruite da Italo Calvino. Eppure per mesi ho raccontato le vicende di Marco Polo e del grande Khan.
"Tu non sai quello che è successo prima". Ma è un'accusa di pregiudizio o di mancanza di empatia? Apro il giornale di ieri e leggo la storia dell'Assenzio e di come una generazione abbia consapevolmente creato il concetto d'individualismo. Isolati e non compresi Verlaine, Wilde, Baudelaire erano tutti dei ritardatari cronici e alle feste preferivano il minuto tavolino di un caffé. Ma io alla collettività non ci posso proprio rinunciare e devo capire i rapporti.
"Tu non sai quello che è successo prima". Ormai sono le 6 e 15 e ho le dita ghiacciate. La solitudine di questa stanza è l'unico posto in cui posso vivere. I tradimenti sono tentativi per riempirla, la stanza. Sono tradimenti d'attesa perché prima o poi m'abituerò anche a questo vuoto e dell'archivio del mondo non sarò più interprete ma custode.
Sta facendo giorno e come previsto anche la voce fuoricampo scompare, a me resta solo la classica nausea per mancanza di sonno, cerco biscotti in cucina e trovo un nuovo pezzo della collezione di D., un frullatore giallo del 1973. Anche lui in fondo non fa forse la stessa operazione? Una collezione di oggetti che non funzionano più. Senza speranza che prima o poi possano essere riparati. Tradisce, nell'erigerli a parti di un desiderio, il loro primo scopo che è quello funzionale. Svela, nel conservarli, un bisogno straziante dell'uomo di riempire anche le stanze dei morti.

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