martedì 20 maggio 2008

Ara&Pace



Caro T.
l'architettura è visceralmente legata al tema civile. E' civile in quanto indispensabile alla costruzione della società. L'architettura ha quindi un doppio statuto, ambiguo e necessario, di estetica ed etica. Questo è un tema grande, grande ben più della "macchina da scrivere" monumento al buon Vittorio Emanuele di cui parli nella mail. Dici giustamente che prima, tra i Fori imperiali e piazza Venezia, prima di creare un'ampia spianata per la "torta", c'erano suggestive vie e viuzze, dall'inconfondibile profumo romano, dal ritmo lento e suadente. Ora, per far posto a quel colossale pastìche di stili e proporzioni, s'è rinunciato a un "pezzo storico della città". Peccato che quel "pezzo storico" di cui tu parli sia anch'esso frutto dello stesso processo di superposizioni storiche che ha giustificato l'inserimento del Monumento nella città eterna. Non so come Vespasiano (che introdusse nella sua Roma un oggetto attuale come il wc pubblico) avrebbe potuto interpretare le, ben più recenti temporalmente, viuzze di cui parli. In queste settimane, per gentile concessione del signor Luciano P. che tu ben conosci, il blog tenta di approfondire la questione sul Senso dell'Architettura legata al processo di divenire storico che tanto angusta il mio genitore e i filosofi da lui citati (Severino).
Spesso penso che la sopravvivenza dell'uomo, come quella delle blatte, sia legata alla sua capacità nell'adattarsi a mangiare i propri escrementi, solo che, a differenza dei temuti scarafaggi, l'uomo produce un enorme quantitativo di feci culturali. Non può farne a meno. Perché ragiona attraverso un sistema di sinapsi che FISICAMENTE e non METAFORICAMENTE si muovono. Muovendosi l'uomo produce pensiero e questo pensiero prodotto crea a sua volta degli accumuli, delle grandi sacche di scarto. Il pensiero non è mortale ma non è neppure divino, il pensiero è un semi-dio che per poter sopravvivere è costretto ad abbandonare delle parti di sé. Quelle parti, forse belle, forse spaventose, sono appunto il suo scarto. Sono la Storia. Il divenire della Storia, o accumolo delle feci, non è altro se non una narrazione sulle modalità dei decessi. Un insieme di racconti su cosa si ha mangiato e su come lo si è prima digerito poi evacuato. Questa, ripeto, è una necessità legata all'evoluzione della specie umana. La necessità del moto vorrei chiamarla. La fisica penso potrebbe venirmi in aiuto rispetto a questa affermazione e spiegarmi come/cosa/quanto perdo durante il mio moto necessario.
In architettura, quel che perdo è evidente: una sicurezza estetica. Togliere le viuzze del centro e sostituirle con una torta multistrato in onore di un Re puzzone significa imporre una nuova "dieta". Forzare lo sguardo ad un nuovo principio del bello che, come sappiamo, può essere realmente prodotto solo attraverso un lento e lungo processo altrimenti resta inevitabilmente, come nel caso del Monumento a Vittorio Emanuele, il ricordo di un pasto mal digerito. La Firenze rinascimentale è frutto di una complessa rete di azioni che ha portato all'introduzione di una nuova visione del mondo. Il Vittoriano è solo un oggetto buttato lì e reso poetico dalla famosa scena del film di Greenaway, The Belly of an Architect. La capacità di distinguere tra una mera operazione mediatica, come il MAXXI di Zaha Hadid o la notizia di spostamento dell'Ara Pacis e le rivoluzioni culturali come l'avvento del 2.0 e dell'Ipermoderno fà tutta la finezza di un critico. Di un pensatore. Poi ci si deve ovviamente anche dedicare alla questione sul Senso, che è legata al perché della forma, ma preferisco, in un blog, parlarne attraverso le immagini piuttosto che con questi fiumi di parole. Allora chiudo invitandoti a osservare queste due immagini che a mio avviso descrivono bene ciò che siamo disposti oggi ad amare della città, ciò che resta tra quintali di rifiuti e la nostra innata capacità di riuscire a trovare belli anche questi!

Special thanks Tamp

4 commenti:

  1. mi inserisco, da non 'mestierante', nel dibattito sul senso dell'architettura e sulla sua funzione conservativa. ché infatti il problema è questo: c'è uno strano momento, e su questo una 'filosofia dell'architettura' deve interrogarsi, in cui la città diventa 'intoccabile', opera d'arte, museo a cielo aperto. da dove promana quel preciso momento? qual è la spinta ideologica/culturale che lo determina? si tratta di un'incapacità di pensare l'evoluzione della città? si tratta della morsa del tardo-capitalismo che cristallizza il presente in funzione della produzione della ricchezza (in altri termini: si tratta di una città che non può essere intaccata perché i turisti altrimenti non li freghi più)? si tratta di un'educazione necrofila?
    quello che si sa è che 'far saltare in aria' la città è un'operazione che solo i regimi autoritari possono fare. a partire dalla distruzione della parigi medievale per fare spazio ai grandi boulevard, per finire all'estetica (che io peraltro adoro, sia sul piano architettonico che pittorico) del nazi-fascismo. nel fanta-storico 'fatherland' di harris berlino cambia volto solo perché hitler ha vinto la guerra e ha potuto dar corpo alle sue visionarie idee dello spazio urbano.

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  2. Considerazioni varie, e poco organiche (sono passate le una e la mia lucidità ne risente), in risposta/rilancio a questa sentita ricerca di un senso.
    Quand'è che la città si è storicizzata. Gran parte del merito nel delineare la fortuna (critica) di Firenze, ad esempio, (e quindi il suo cristallizzarsi in forme medievali-rinascimentali) l'hanno senz'altro i cosiddetti anglofiorentini che nell'Ottocento venivano a passare la stagione sulle colline fiesolane, quegli studiosi intrisi di grand tour che involontariamente (?) crearono un mito: il Rinascimento. Non che prima non esistesse il concetto (esimetemi vi prego da noiosi richiami burckhardtiani), ma questi gentili signori l'hanno stigmatizzato rendendolo immediatamente, iconicamente riconducibile ad una città e ad un periodo. Ancora oggi si discute di medioevo e rinascimento, inizio e fine (per alcuni, Le Goff in testa, il medioevo non è ancora finito), ma il sentire comune e semplicistico individua Rinascimento = Firenze + Quattrocento.
    Questo modo di etichettare la storia, tipicamente ottocentesco, ha avuto vari effetti: il primo che mi viene in mente è il delineare tutta una serie di parametri per cui il 'vero' Rinascimento è fiorentino e il giudizio sulla validità delle forme d'arte regionali coeve si è basato per più di un secolo sulle più o meno evidenti analogie con questo. Ancora oggi si è tentati di studiare il Quattrocento italiano sulla base di quello fiorentino. Il secondo è che la percezione del costruito è così strettamente legata al tempo in cui lo si vive da far sì che il buon Vasari definisse 'maledetta selva di pinnacolini' le cattedrali gotiche (il senso è questo, la citazione, a memoria, è cialtronescamente verosimile).
    Hai ragione, Francesco, quando dici che un gesto forte, autoritario, spesso è l'unico capace di far saltare la città. IL gesto. Senza Luca Pitti e poi Cosimo I non avremmo quella selva di truppe cammellate in coda alla Galleria Palatina, e sospetto che il ristoratore che sbraita contro le mostruosità del contemporaneo avrebbe meno coperti al suo desco. L'Architettura non è democratica.
    Io non voglio dire che qui si assista all'invenzione della tradizione, ma è un fatto che la consuetudine sia confortevole e foriera di turisti. La si ricerca, la si crea, non la si può disattendere. Costruire in un certo modo è rassicurante per molti. In fin dei conti le nostre colline sono disseminate di castellotti merlati non più vecchi dell'invenzione della macchinetta per l'espresso, e privi affatto di memorie cavalleresche. A molti ancora oggi piacerebbe viverci, mentre noi archs sorridiamo nel passarci davanti. E' un dato culturale.
    La storia – la Storia – si fa ogni giorno. Tutte le volte che passo da piazza della Repubblica penso che avrei voluto vedere il Ghetto; nello spulciare le foto Alinari o le tele di Signorini (quelle non le spulcio, però) m'incazzo perché un pezzo della mia città è stato raso al suolo. Ma così è successo alla Parigi di Haussmann e a molte altre città. Come si fa a togliere gli altari barocchi dalle chiese gotiche? Ne sarebbero forse appagati i nostri occhi, ma la Storia no.

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  3. l'ultima parte del commento che segue il mio contiene qualche spunto. non che la prima parte non ne contenesse, ma quella mi trova più d'accordo e dunque non ci torno.
    in cauda venenum, però, perché nonostante l'eugenia confermi che la storia si fa ogni giorno, alla fine mi ritorna alla nostalgia del ghetto. ovvero: com'era bella firenze quando era brutta. oppure: quant'era autentica firenze.
    il problema, qui, è l'idea dell'autenticità, dunque: io che invece l'invenzione della tradizione la sostengo, direi che questa nostalgie de la boue non è altro se non una malinconia passatista fondata sull'idea che la città è un monolite e che c'è un momento in cui essa diventa tale e non si può più toccare.
    l'ironia è che -- succede sempre -- dopo qualche centinaio di anni, il problema si ripropone anche per quel 'nuovo' ormai diventato anch'esso 'vecchio' e dunque degno della riverenza che si deve all'autentico.
    ma notata questa contraddizione, devo dire che l'eugenia recupera quando afferma che non si possono togliere gli altari barocchi dalle chiese gotiche, tornando così a un'idea produttiva e feconda di sovrapposizione che non ha nulla a che fare con la cristallizzazione malinconica del passato.

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  4. infatti l'eugenia sa scindere tra la scelta consapevole di intervenire/non intervenire, nel rispetto di una più o meno consolidata stratigrafia storica, e il moto 'di pancia' che genera un sospiro nostalgico per una tipologia di tessuto urbano più vicino alle sue corde emotive.

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